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INCURSIONI UNGARE IN EMILIA

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Nella foto a destra: il ā€œPonte dā€™Attilaā€ a Parma

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Da Parma a Reggio

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Nel 1988, quando Parma venne gemellata con Szeged, nessuno ricordĆ² che il re Attila, sepolto nel letto del Tibisco nei pressi della cittĆ  ungherese, era lā€™eponimo di un ponte sul torrente Parma.

Infatti il piĆ¹ meridionale dei ponti che a Parma attraversano il torrente omonimo, al di fuori delle antiche mura, almeno dal XIII secolo ĆØ chiamato Ponte Dattaro: ā€œpons, qui est super flumen Parmae, qui dicitur Datariā€œ, si legge negli statuti comunali del 1266. La tesi che collega il nome ad una ipotetica famiglia Dataro non ĆØ documentata, mentre la denominazione puĆ² essere spiegata solo se si considera che il ponte venne anche indicato come Pons Atilae, ā€œPonte di Attilaā€.

Il re unno perĆ² non fu mai a Parma; anzi, non risulta che sia mai sceso a sud del Po. Dopo avere espugnato Aquileia il 18 luglio 452 e dopo averla distrutta, egli si diresse verso il grande fiume e, seguendone la riva sinistra, avanzĆ² fino a Pavia e fino a Milano, saccheggiando anche queste cittĆ , una dopo lā€™altra. Alla fine dellā€™estate le forze unne si erano spostate di 130 chilometri a sud-est di Milano, in direzione di Mantova. Fu lƬ, nei pressi del Mincio, che Attila ricevette la famosa ambasceria inviatagli dallā€™imperatore Valentiniano III e guidata da papa Leone Magno in persona, dopo di che fece ritorno nel bacino dei Carpazi.

La denominazione di Pons Atilae, sfuggita allā€™attenzione dei linguisti che hanno indagato sulla presenza del nome di Attila nella toponomastica (1), costituisce verosimilmente una delle tante tracce lasciate nella nomenclatura toponimica dalle incursioni degli Ungari, i quali, essendo correntemente identificati con gli Unni, rinverdirono mezzo millennio piĆ¹ tardi la fama leggendaria del ā€œflagello di Dioā€.

Finora si ĆØ ritenuto, sulla scorta di quanto scrive Ireneo AffĆ² (2), che lā€™unico indizio del passaggio degli Ungari nel territorio di Parma fosse rappresentato dalla ā€œtraslazione delle reliquie di San Nicomede da Fontanabroccola a Parma, ben protetta dalle sue muraā€ (3) e che un altro probabile segno del loro passaggio fosse ā€œla desolazione di una chiesa a Guastallaā€ (4), che apparteneva alla diocesi di Reggio.

CiĆ² dovette avvenire allā€™epoca dellā€™incursione iniziata nellā€™898, quando gli Ungari, che erano entrati in Emilia nei pressi di Piacenza e ne avevano devastati i sobborghi, nellā€™anno 900 infuriarono nel Reggiano danneggiando gravemente San Tommaso e probabilmente la cattedrale stessa.

Nel Catalogo dei vescovi di Reggio (5) si legge che in quella circostanza gli Ungari trucidarono, insieme con molti chierici, anche il vescovo Azzone (Azzo, qui interfectus est a paganis).

BenchĆ© la notizia dellā€™uccisione del vescovo di Reggio non sia del tutto certa e sia stata contestata giĆ  nel sec. XVIII (6), tuttavia i danni riportati dalla Chiesa reggiana furono cosƬ ingenti, che Berengario dovette intervenire elargendo beni di proprietĆ  regia, ā€œprovidens ā€“ come si legge testualmente in un diploma dellā€™anno 904 ā€“ eiusdem ecclesiae necessitates vel depredationes atque incendia quae a ferocissima gente Hungarorum passa estā€ (7).

Il monastero di San Tommaso potĆ© cosƬ essere ricostruito: ā€œcoenobium Sancti Thomae (ā€¦) reaedificatum, olim ab infidelibus funditus destructumā€œ, secondo quanto si legge in un documento (8).

Il vescovo di Reggio succeduto ad Azzone, subito dopo lā€™incursione che probabilmente era costata la vita al suo predecessore, nellā€™ottobre dellā€™anno 900 ottenne da Ludovico III il diritto di fortificare la sua chiesa con un giro di mura: ā€œlicentiam circundandi iam dictam ecclesiam per girum suae potestatis (ā€¦) excelsa munitione undique ad perpetuam ecclesiae suae defensionemā€ (9).

Undici anni dopo, imitando altri vescovi e signori feudali che si affrettavano a costruire fortificazioni atte a difendere le popolazioni dalle incursioni ungare, il vescovo di Reggio costruƬ un castello in una localitĆ  chiamata Vicolongo (10). La ricostruzione delle chiese e dei conventi devastati dagli Ungari si protrasse fino al sec. XI; nellā€™anno 1000 venne fondato a Reggio un nuovo monastero, dedicato a San Pietro e a San Prospero.

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Da Modena a Bologna

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Proseguendo dunque la loro cavalcata lungo la via Emilia, gli Ungari arrivarono a Modena, probabilmente verso la fine di gennaio.

La leggenda di S. Geminiano, la sola fonte di questo episodio, racconta che allā€™arrivo dei barbari il vescovo, il suo clero e i fedeli si diedero alla fuga, abbandonando al proprio destino sia la chiesa in cui era sepolto San Geminiano sia gran parte del tesoro della chiesa. Entrati furibondi nella cittĆ  deserta, gli Ungari sarebbero rimasti per qualche ora nella chiesa di San Geminiano e poi avrebbero lasciato la cittĆ  senza torcere un capello a nessuno (sine alicuius laesione), grazie allā€™intercessione del Santo (obtentu gloriosissimi et saepe nominandi patris) (11).

Gina Fasoli, nel vecchio ma ancor fondamentale studio su Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, ha sollevato una serie di irriverenti obiezioni alla versione agiografica dellā€™evento.

ā€œCi si domanda infatti ā€“ scrive la Fasoli ā€“ a che cosa servivano le mura innalzate dal vescovo Liduino, se i barbari entrarono cosƬ facilmente senza combattere (ā€¦) e ci si domanda anche a che cosa servivano quelle scolte modenesi che vigilavano dallā€™alto delle mura invocando contro gli Ungari la protezione di S. Geminiano (ā€¦) come mai i Modenesi fuggirono dalla loro cittĆ  cosƬ ben fortificata e dove fuggirono, se scapparono cosƬ in fretta che non presero con sĆ© nemmeno le sacre reliquie di S. Geminiano e tutto il tesoro della sua chiesa? (ā€¦) Sembra insomma storicamente molto piĆ¹ prudente ā€“ conclude la Fasoli ā€“ respingere la narrazione dellā€™Anonimo, anche se ĆØ stata finora tradizionalmente accettata, e ritenere che Modena, protetta come Parma e tante altre cittĆ  dalla cerchia delle sue solide mura, vigilata dai cittadini, non ebbe a patire alcun danno dagli invasoriā€ (12).Ā 

Sicuramente gli Ungari devastarono il contado modenese ed assalirono lā€™abbazia di Nonantola, uno dei piĆ¹ importanti monasteri dellā€™Italia settentrionale. A quanto si legge nel Catalogo dellā€™Abbazia di Nonantola, alcuni monaci, tra cui lā€™abate Leopardo, trovarono scampo nella fuga, ma la maggior parte di loro fu trucidata e lā€™edificio venne dato alle fiamme, insieme con la preziosa biblioteca (Venerunt usque ad Nonantulam et occiderunt monachos et incenderunt monasterium et codices multos concremaverunt (ā€¦) abbas Leopardus cum certis aliis monachis fugierunt et aliquanto latuerunt). In seguito tuttavia la comunitĆ  monastica si ricostituƬ e lā€™abbazia fu ricostruita: ā€œPostea vero recongregati sunt et recondiderunt monasterium et ecclesiamā€ (13).

Mentre si puĆ² attribuire agli Ungari ā€œla scomparsa di altri piccoli monasteri nellā€™agro persicetano che dipendevano dal monastero di Montecassino e di cui si perdono le tracceā€ (14), risultĆ² invece vano il tentativo dei barbari di appiccare il fuoco alla chiesa di Santo Stefano, situata ad est di Bologna, fuori dalla cinta muraria; un insuccesso, questo, che fu attribuito allā€™intercessione di San Petronio.

Quanto alla via dā€™Ungheria, nome portato ancora nel 1294 dallā€™attuale via Schiavonia a Bologna, Giovan Battista Pellegrini, che si ĆØ occupato dei numerosi toponimi italiani relativi agli Ungari, dichiara di non sapere ā€œquale fondamento abbia qui tale nome in rapporto con le incursioniā€ (15).

Non ĆØ escluso, invece, che risalga alle scorrerie di quel periodo la denominazione di strada Ungarista o via Ungaresca data alla strada che presso ForlƬ correva parallela alla via Emilia.

In ogni caso, da Bologna le schiere ungare tornarono verso il Po e lo passarono ā€œprobabilmente ad Ostiglia, nodo stradale frequentatissimo in tutti i tempiā€ (16).

In giugno, un contingente di truppe ungare attraversĆ² la laguna di Venezia, con cavalli e barchette fatte di pelli, e devastĆ² Chioggia ed altri centri minori; ma il 29 giugno si trovĆ² davanti la flotta veneziana e fu costretto a ritirarsi.

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Il Ritmo Modenese

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Quel vero e proprio gioiello di poesia latina medioevale che va sotto il nome di Ritmo Modenese fu trovato in un codice del secolo XI della Cattedrale di Modena da Lodovico Antonio Muratori, il quale lo pubblicĆ² inizialmente nelle Antiquitates Italicae Medii Aevi (17) facendolo risalire allā€™anno 924.

Il carme fu successivamente pubblicato nei Monumenta Germaniae Historica tra i componimenti poetici dellā€™etĆ  carolina (18) da Ludwig Traube, il quale invece lo anticipĆ² al biennio 899-900, cioĆØ allā€™epoca in cui Modena potĆ© resistere alle incursioni ungare grazie alle sue forti mura ricostruite sul finire del sec. IX dal vescovo Liduino, grazie alla vigilanza delle sue scolte e soprattutto, secondo quanto attestato dal carme, grazie allā€™intercessione del santo patrono della cittĆ .

Il carme esordisce raccomandando agli uomini di guardia sulle mura di vigilare contro il pericolo di un improvviso attacco nemico:

Ā 

O tu, qui servas armis ista moenia,Ā 

noli dormire, moneo, sed vigila !

Ā 

Come exempla di vigilanza, vengono citati due celebri episodi: il primo ĆØ quello dellā€™espugnazione di Troia, addebitata al fatto che le sentinelle si erano abbandonate al sonno e non si erano accorte che dal ventre del cavallo di legno uscivano i guerrieri greci, mentre il secondo episodio ĆØ quello delle oche del Campidoglio che misero in fuga i Galli invasori.

Dopo avere invocato Cristo affinchĆ© vigili su Modena e ne difenda la cinta muraria con la sua lancia e dopo aver invocato la Santa Vergine e lā€™Apostolo Giovanni, il carme fa appello ai giovani della cittĆ  (fortis iuventus, virtus audax bellica) perchĆ© si avvicendino nei turni di guardia sulle mura.

A questo punto ci si rivolge a San Geminiano, chiedendogli di pregare il Re dei Cieli affinchƩ salvi Modena dal flagello presente, che pure non sarebbe immeritato:

Ā 

Confessor Christi, pie Dei famule,Ā 

Geminiane, exorando supplica,

ut hoc flagellum, quod meremur miseri,

celorum regis evadamus gratia.

Ā 

Dā€™altronde giĆ  ā€œai tempi di Attilaā€ (Attile temporibus) il santo patrono aveva salvato la cittĆ  da un pericolo analogo. Infatti, secondo una pia leggenda, per salvare Modena dagli Unni di Attila San Geminiano (che era morto mezzo secolo prima, nel 397) avvolse la cittĆ  entro una fitta coltre nebbiosa, inducendo i barbari invasori a passare oltre. Si tratta di un miracolo analogo a quello che viene attribuito a San Prospero, vescovo di Reggio Emilia nel V secolo, il quale avrebbe salvato la cittĆ  da una non meglio identificata incursione di Unni producendo il miracolo della nebbia.

Nel Ritmo Modenese, dunque, la rievocazione della figura di Attila introduce la menzione dei barbari nepoti, che costituiscono la minaccia presente.

Contro le frecce degli Ungari, temibili arcieri, i Modenesi invocano la difesa del santo patrono, anche se per i loro peccati riconoscono di non esserne degni:

Ā 

Nunc te rogamus, licet servi pessimi,

ab Hungarorum nos defendas iaculis.

Ā 

Ed ĆØ sempre San Geminiano ad essere ringraziato con questa strofe di ottonari trocaici rimati:

Ā 

Tandem urit HungarorumĀ 

gens nefanda et cunctorum

loca perdit: sed suorum

Sanctus servat moenia.

Ā 

ā€œInfine la gente nefanda degli Ungari incendia e distrugge glā€™insediamenti di tutti; ma il Santo salva le mura dei suoiā€, cioĆØ dei suoi Modenesi.

Un altro testo liturgico (19), stilisticamente piĆ¹ elaborato, dice:

Ā 

Stella fulget in nebula,

dum fugit Ungarorum

gens furens, visa cellula,

Flos, in qua confessorum

Geminianus parvula

lux humatus, quam horum

sic mox illaesa singula

liquit gens perfidorum.

Ā 

ā€œMentre la furente gente degli Ungari fugge, una stella risplende nella nebbia. La celletta in cui ĆØ sepolto il Fiore dei Martiri, Geminiano, ĆØ una piccola luce, lā€™unica che lā€™orda di questi infedeli lascia intattaā€.

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La vittoria ungara sul fiume Brenta

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Cerchiamo adesso di delineare sinteticamente il contesto storico degli eventi che ispirarono lā€™autore (o gli autori) del Ritmo Modenese.

Il 21 febbraio 896 Arnolfo di Carinzia, re dei Franchi orientali, riceveva in San Pietro la corona imperiale. GiĆ  nellā€™892 il sovrano aveva stretto con gli Ungari un patto per averli alleati contro le popolazioni della Moravia; in pochi anni, gli Ungari annientarono il principato moravo, sul territorio del quale fu creata una zona di confine corrispondente grosso modo allā€™Austria odierna. Fu cosƬ che gli Ungari si resero conto dellā€™opulenza dei territori occidentali e delle opportunitĆ  di bottino che questi presentavano. Dā€™altronde giĆ  a partire dallā€™862, quando erano ancora stanziati oltre il Dnepr, essi avevano effettuato sporadiche incursioni contro i territori orientali del Sacro Romano Impero.

PerciĆ² nellā€™899, tre anni dopo l'ā€occupazione della patriaā€ nel bacino danubiano, gli Ungari accolsero ben volentieri la nuova richiesta dā€™aiuto di Arnolfo, che dopo essere stato incoronato a Roma doveva sistemare i conti col suo rivale, Berengario I.

In primavera (in agosto secondo altre fonti) arrivĆ² dunque nella Pianura Padana un esercito di cinquemila cavalieri ungari che cominciĆ² a devastare e saccheggiare la regione.

Liutprando (915-972) cosƬ registra lā€™evento nellā€™Antapodosis (20) da lui scritta fra il 959 e il 962, anno in cui diventĆ² vescovo di Cremona.

ā€œIl Sole non aveva ancora lasciato il segno dei Pesci per occupare quello dellā€™Ariete, quando, dopo aver radunato un immenso e innumerevole esercito (immenso atque innumerabili collecto exercitu) [gli Ungari, ndr] si dirigono in Italia; oltrepassano Aquileia e Verona, cittĆ  molto ben fortificate (munitissimas civitates), e giungono a Ticinum ā€“ che ora con altro termine piĆ¹ insigne viene chiamata Pavia (Papia) ā€“ senza che nessuno opponga resistenza (nullis resistentibus). Re Berengario non potĆ© stupirsi abbastanza per un evento cosƬ straordinario e senza precedenti (tam praeclarum novumque facinus); prima dā€™allora, infatti, non aveva nemmeno udito il nome di questo popoloā€ (21).Ā 

Trovandosi nella necessitĆ  di difendere i suoi sudditi dallā€™invasione barbarica, Berengario, che si trovava nellā€™Italia centrale, raccolse un esercito di circa 15.000 uomini, 25.000 secondo qualcuno, in ogni caso un numero almeno triplo di quello dei nemici (exercitus triplo Hungariorum validior, dice Liutprando), e marciĆ² verso il Po.

Gli Ungari disponevano di unā€™intelligenza tattica e di una tecnica militare che consentƬ loro di infliggere numerose sconfitte ad avversari piĆ¹ numerosi. Ciascuno di loro montava un cavallo, erano addestrati nellā€™uso dellā€™arco, della lancia e della spada, cosicchĆ© potevano adoperare le armi a seconda delle necessitĆ . La loro cavalleria era in grado di suddividersi in unitĆ  militari piĆ¹ piccole, veri e propri ā€œcorpi tatticiā€ che ubbidivano disciplinatamente ciascuno al proprio comandante, puntavano tutto sulla rapiditĆ  delle operazioni e sullā€™effetto sorpresa. Prima dellā€™attacco tempestavano il nemico con una fitta grandine di frecce, provocando lo scompiglio della cavalleria avversaria e investendola subito dopo con i loro cavalli. Maestri nelle astuzie belliche, simulavano la fuga per attirare il nemico in un agguato giĆ  predisposto. Diventavano vulnerabili, invece, quando dovevano trascinare pesanti carri carichi di bottino, perchĆ© ciĆ² li privava della loro caratteristica mobilitĆ . Le loro incursioni erano sempre precedute dalle attivitĆ  degli esploratori, i quali si procuravano informazioni sulla natura e sulla situazione politica del paese da attaccare.

Stavolta perĆ² gli Ungari si trovano davanti a un esercito che ĆØ almeno il triplo del loro. Anzi, siccome Berengario sta per passare il Po, essi, che sono giĆ  arrivati a Pavia, temono di vedersi tagliare la via del ritorno; perciĆ² decidono di rinunciare allā€™impresa e si ritirano a est dellā€™Adda, ma in tanta fretta e furia che molti vi muoiono annegati.

Ecco come Liutprando descrive la situazione.

ā€œAppena gli Ungari videro una moltitudine cosƬ grande, costernati nellā€™animo, non riuscivano a deliberare circa il da farsi. Avevano un gran timore di combattere, ma non potevano assolutamente fuggire (preliari penitus formidabant, fugere omnino nequibant). PerĆ², ondeggiando nel dubbio, ritengono che sia meglio fuggire anzichĆ© combattere; e, sotto lā€™incalzare dei Cristiani, attraversano a nuoto il fiume Adda, cosicchĆ© per la fretta eccessiva moltissimi morivano annegati (persequentibusque Christianis Adduam fluvium natando, ita ut nimia festinatione plurimi necti submergerentur, pertranseunt)ā€ (22).

Vista la mala parata, ā€œgli Ungari prendono la saggia decisione di inviare dei messaggeri a chieder la pace ai Cristiani, al fine di poter ritornare incolumi, restituendo tutta la preda e il bottino (praeda omni cum lucro reddita). I Cristiani respinsero totalmente questa richiesta e, ahimĆ© (pro dolor), ā€“ cosƬ si lamenta Liutprando ā€“ li insultavano, e cercavano catene con cui legare gli Ungari, piuttosto che armi con cui ucciderli. I pagani, non potendo addolcire gli animi dei Cristiani con questa proposta, ritenendo che fosse migliore la vecchia decisione, cercano di liberarsi iniziando la fuga e cosƬ fuggendo giungono nelle vastissime campagne veronesi (in Veronenses latissimos campos perveniunt)ā€(23).

Qui, fra lā€™avanguardia deglā€™inseguitori e la retroguardia deglā€™inseguiti, avviene una prima scaramuccia, che si risolve a vantaggio dei barbari (ā€œin quo victoriam habuere paganiā€œ) (24).Poi, siccome si avvicina lā€™esercito italico, gli Ungari proseguono la ritirata. Ma, siccome i cavalli ormai sono sfiancati, sono costretti a fermarsi sulla riva orientale del Brenta, sempre incalzati dagli Italici, che si fermano sullā€™altra sponda.

Ancora una volta gli Ungari si dichiarano disposti a consegnare il bottino, i prigionieri, le armi e i cavalli, tranne quelli necessari per proseguire nella ritirata. Anzi, promettono che, se verranno risparmiati e potranno andarsene sani e salvi, non metteranno mai piĆ¹ piede in Italia, lasciando in ostaggio i loro figli a garanzia dellā€™impegno assunto. La proposta perĆ² viene respinta. ā€œMa, ahimĆ©, ā€“ si lamenta ancora il cronista ā€“ i Cristiani, accecati dalla superbia (superbiae tumore decepti), continuano a minacciare i pagani come se li avessero giĆ  vintiā€ (25). Ā 

Il 24 settembre 899 gli Ungari decidono di passare allā€™attacco, dividendosi in tre gruppi che attraversano il Brenta e aggrediscono su tre lati glā€™Italici, che sono scesi da cavallo e si stanno ristorando di cibo e di riposo. Lā€™azione ĆØ fulminea: ā€œgli Ungari ā€“ scrive Liutprando ā€“ li trafissero con cosƬ grande rapiditĆ , che ad alcuni infilzarono il cibo in gola (quos tanta Hungarii celeritate confoderant, ut in gula cibum transfigerent), ad altri portarono via i cavalli, impedendo loro la fuga e tanto piĆ¹ facilmente li uccidevano, in quanto avevano visto che erano senza cavalliā€.

ā€œAd accrescere infine la rovina dei Cristiani ā€“ prosegue il cronista ā€“ vi era tra loro una discordia non piccola. Alcuni, addirittura, non solo non combattevano contro gli Ungari, ma desideravano che i loro vicini cadessero; e questi perversi lo facevano in maniera perversa (perversi ipsi perverse fecerant), al fine di regnare da soli, piĆ¹ liberamente, purchĆ© cadessero i vicini. Mentre trascurano di soccorrere alle necessitĆ  dei vicini e ne desiderano la morte, corrono essi stessi incontro alla propria. Pertanto i Cristiani fuggono e i pagani infieriscono (fugiunt itaque Christiani, saeviuntque pagani); e quelli che prima non erano riusciti a supplicare coi doni, non sapevano poi risparmiare i suppliciā€ (26).

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Le devastazioni in Emilia

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In seguito alla sconfitta, Berengario si rinchiuse in Pavia coi resti del suo esercito, ormai praticamente dissolto. La durissima disfatta lo indebolƬ di fronte allā€™aristocrazia, che ben presto gli oppose Ludovico di Provenza, e di fronte alle popolazioni, che rimasero esposte alle scorrerie degli Ungari.

Questi infatti ripresero a saccheggiare la Valle Padana, finchĆ© alla metĆ  di dicembre una parte di loro da Vercelli si avviava verso il Gran San Bernardo, mentre unā€™altra parte passava il Po, probabilmente presso Pavia, nel luogo che da loro prese il nome di Popula Pagana, e procedendo sulla riva destra arrivĆ² sotto le mura di Piacenza. Imboccata la Via Emilia, si diressero verso Parma e iniziarono quella serie di devastazioni di cui si ĆØ detto piĆ¹ sopra.

Successivamente, fra il 903 e il 904, lā€™Italia fu obiettivo di unā€™altra incursione ungara, della quale le fonti non consentono di determinare lā€™area in maniera precisa.

Probabilmente la nuova scorreria si limitĆ² alle zone a nord del Po; sicuramente coinvolse Aquileia e Piacenza e indusse i bergamaschi a rafforzare le fortificazioni cittadine.

Berengario, che nel frattempo aveva prevalso sul rivale Ludovico III ed aveva ripreso Pavia, stavolta preferƬ venire a patti con gli Ungari e instaurare con loro relazioni di amicizia, ā€œdatis obsidibus ac donisā€ (27), ossia elargendo donativi e consegnando anche degli ostaggi come pegno di alleanza.

Gli studiosi ungheresi sostengono che nel 904 venne conclusa una vera e propria tregua, la quale fu osservata fino al 919, poichƩ per quindici anni gli Ungari rivolsero le loro attenzioni a Baviera, Turingia e Sassonia.

CiĆ² consentƬ alle popolazioni italiche di predisporre opportune fortificazioni in previsione della fine della tregua. Mentre il vescovo di Reggio succeduto ad Azzone, come giĆ  si ĆØ detto, erige un castello a Vicolongo, ā€œil Vescovo di Modena, che ha costruito insieme con gli abitanti il castello di Cittanuova [sic] concedendo degli appezzamenti presso le mura, fa ai concessionari obbligo di costruirvi una casa e di abitarvi, di provvedere alla difesa e alla manutenzione del castello, esigendo un censo che varia dallā€™uno allā€™altro e senza impegnarsi a non pretendere altri tributiā€ (28). Tra il 916 e il 922 anche il borgo di Carpi viene rifondato come roccaforte (castrum Carpi).

Nel 919, dopo aver ottenuto la corona imperiale, Berengario dovette far fronte ad alcuni vassalli che gli opponevano Rodolfo di Borgogna; per liberarsi degli avversari, pensĆ² bene di assoldare due contingenti di cavalieri ungari, comandati da due capi di cui Liutprando ci ha trasmesso i nomi: Dursac e Bugat.

Tuttavia, per quanto fossero ā€“ sempre secondo Liutprando ā€“ ā€œgrandi amiciā€ di Berengario, i contingenti ungari si comportarono come in un territorio di conquista. Una parte di questi gruppi si unƬ ad altre schiere sopraggiunte dallā€™Ungheria e nel 922 scese per la costa adriatica fino alla Puglia sotto il comando di un Salardo (SzovĆ”rd) che probabilmente ĆØ da identificarsi con lo Zoard delle tarde cronache ungheresi.

Dopo la battaglia di Fiorenzuola, nella quale Rodolfo di Borgogna si scontrĆ² con Berengario e coi suoi alleati ungari, questi ultimi, comandati da Salardo, il 12 marzo 924 strinsero dā€™assedio Pavia e la incendiarono con le loro frecce infuocate.

Un mese piĆ¹ tardi, il 7 aprile 924, Berengario cadde vittima di una congiura ordita dai fautori di Rodolfo. I capi ungari, non piĆ¹ legati dal patto col sovrano, nel 927 misero a ferro e fuoco la Toscana e il Lazio, anche qui inserendosi nelle lotte intestine dei signori italiani.

ā€œParticolarmente notevole per la sua estensione territoriale ā€“ scrive uno storico delle invasioni barbariche ā€“ fu perĆ² soprattutto la grande spedizione del 937, che vide gli ungari entrare nella penisola da nordovest, attraverso il Moncenisio e il Monginevro, e spingersi progressivamente sempre piĆ¹ a sud, lungo il tradizionale percorso che conduceva dalle Alpi occidentali a Roma, fino a giungere in Campania, per poi risalire da qui lentamente, uscendo infine, con ogni probabilitĆ , dalla frontiera nordorientale. Proprio nel viaggio di ritorno gli ungari subirono una dura sconfitta per mano degli abitanti della Marsica, i quali sorpresero dentro unā€™impervia gola montana i nemici, rallentati nella marcia dal cospicuo bottino raccolto nella lunga scorribanda, e inflissero loro una severa punizioneā€ (29).

Una successiva apparizione di Ungari sotto le mura di Roma ebbe luogo nel 942, ma glā€™invasori furono affrontati e respinti; e nei pressi di Rieti dovettero subire unā€™altra sconfitta.

Le ultime scorrerie nella penisola ebbero luogo tra il 952 e il 954, quando vennero attaccate Torino e Susa.

Le incursioni ungare, che tra lā€™898 e il 955 avevano superato la trentina in tutta lā€™Europa occidentale, si erano ridotte nel tempo ā€œsia per la maggior capacitĆ  di resistenza degli aggrediti sia, forse, per una diminuzione della spinta propulsiva dello stesso mondo ungaricoā€ (30).

Esse cessarono definitivamente dopo la sonora sconfitta che nel 955 Ottone I inflisse agli Ungari a Lechfeld presso Augusta. Da allora gli Ungari si stabilizzarono nel bacino carpato-danubiano, si convertirono al cristianesimo romano e costruirono un regno che costituƬ unā€™antemurale contro altri popoli di cavalieri nomadi, come i Peceneghi o i Cumani.

Sei secoli dopo la battaglia di Lechfeld, un documento custodito presso lā€™Archivio di Stato di Parma e datato 19 febbraio 1559 attesta un giuramento di fedeltĆ  agli Statuti parmensi sottoscritto dai maggiorenti delle Valli dei Cavalieri, tra i quali figurano tre esponenti di una famiglia dā€™origine ungherese: Magiarus, Hillarius e Bartholomeus de Magiaris.

I de Magiaris, che si estinsero nel XVII secolo, erano probabilmente ā€œdiscendenti di qualche disertore magiaro, giĆ  appartenente allo sconfitto corpo di spedizione ungaro mandato dallā€™Albornoz ad assalire Parma, durante il periodo della signoria visconteaā€ (31).

Cessato il periodo delle incursioni, era dunque iniziata nella storia del popolo magiaro una nuova era, nel corso della quale esso era diventato membro della famiglia europea, a pieno titolo e con pari dignitĆ .

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1. G. Serra, Da Altino alle Antille. Appunti sulla fortuna e sul mito del nome ā€˜Altiliaā€™, ā€˜Attiliaā€™, ā€˜Antiliaā€™, in Lineamenti di una storia linguistica dellā€™Italia medioevale, I, Liguori, Napoli 1954, pp. 1-66.

2. I. AffĆ², Storia della cittĆ  di Parma, Parma 1792, p. 203.

3. G. Fasoli, Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, Sansoni, Firenze 1945, p. 105.

4. G. Fasoli, ibidem. Cfr. I AffĆ², Istoria di Guastalla, Guastalla 1785, p. 57.

5. Rerum Italicarum Scriptores, VIII, 1170.

6. G.. Tiraboschi, Memorie storiche modenesi, Modena 1798, I, p. 48.

7. I Diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, F.S.I., Roma 1903, XLII, 904, gennaio 4.

8. G. Bisoni, Gli Ungheri in Italia, in La scuola cattolica e il pensiero scientifico, S. III, 18, 1899, pp. 314-330, 486-502, vol. 19, 1900, pp. 269-295.

9. Dipl. Ludovico III, IV, 900, Ott. 31.

10. Dipl. Bereng. I, LXXV, a. 911.

11. Vita II di S. Geminiano, in Mon. Storia Patria delle province modenesi, XIV, 1, a cura di P. Bortolotti, p. 103.

12. G. Fasoli, op. cit., pp. 107-109.

13. Catal. Abb. Nonant., p. 572; cit. da G. Fasoli, op. cit., p. 109.

14. G. Fasoli, op. cit., pp. 109-110.

15. G. B. Pellegrini, Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana ed occidentale, in: C.I.S.A.M. Atti delle settimane di studio. XXXV Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari (23-29 aprile 1987), Spoleto 1989, p. 323).

16. G. Fasoli, op. cit., 96.

17. Antiquitates Italicae Medii Aevi, vol. III, col. 703.

18. Poƫtae aevi Carolini, vol. III, pp. 703-706.

19. G. Cappelletti, Le chiese dā€™Italia dalle loro origini fino ai giorni nostri, Venezia 1844, XI, p. 213.

20. Liutprandi Ticinensis Ecclesiae Levitae Rerum ab Europae Imperatoribus ac Regibus gestarum, in A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, pp. 425-476.

21. Liutprando, Antapodosis, II, 9.

22. Antapodosis, II, 10.

23. Antapodosis, II, 11.

24. Antapodosis, II, 12.

25. Antapodosis, II, 13.

26. Antapodosis, II, 15.

27. Giovanni Diacono, Chronicon venetum, F.S.I., G. Monticolo, Roma 1890, p. 22.

28. G. Fasoli, op. cit., p. 217.

29. C. Azzara, Le invasioni barbariche, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 135-136.

30. C. Azzara, op. cit., p. 137.

31. G. Capacchi, Storia, leggenda e araldica ā€œminoreā€ nelle Valli dei Cavalieri, ā€œAurea Parmaā€, 1963, p. 76.

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